Gli approfondimenti di ‘LA RIFLESSIONE’: diritto alla salute e disuguaglianze territoriali

di Daniele Madau e Marta Anastasi

La Revisione Periodica Universale è un processo in cui il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu esamina ogni Stato su come questo adempie i suoi obblighi ed impegni relativamente ai diritti umani, che si dispiega durante quattro anni. Insieme a Franciscans International, la ONG – con sede all’Onu- dei francescani nel mondo, ‘La Riflessione’ ha messo sotto esame il rispetto del diritto alla salute, e alla vita, in Italia. Con questo lavoro – reso possibile dal contributo di Marta Anastasi e dai dati del ‘Corriere della Sera’- inauguriamo la sezione ‘Approfondimenti’

PREMESSA

L’art. 32 della Costituzione Italiana riconosce il diritto alla salute quale diritto fondamentale di ciascun individuo e della collettività, garantendo la gratuità delle cure agli indigenti. Il diritto alla salute è, pertanto, un diritto individuale inviolabile e assoluto di rilievo per l’intera comunità.

Dalla Costituzione in poi, lo Stato Italiano si è impegnato adottando nel tempo normative specifiche per adempiere il mandato costituzionale. Il 1978, in particolare, segna un passaggio importante in quanto, con la promulagazione della Legge n. 833/1978, viene istituito il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Esso costituisce l’istituzione fondamentale per la garanzia delle diritto universale alla salute in Italia ed è rappresentato dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento e al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione.

Ad oggi, dopo la riforma del titolo V della Costituzione (art. 117 Cost.), le competenze in materia sanitaria sono state ridisegnate, stabilendo che, a livello centrale, sia lo Stato ad avere la competenza esclusiva per la profilassi internazionale e a determinare i “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti sul territorio nazionale”, mentre, a livello periferico, ciascuna Regione italiana deve assicurare i servizi di assistenza sanitaria e ospedaliera. Dal 2001, pertanto, l’assistenza sanitaria pubblica in Italia si fonda su accordi specifici tra lo Stato e le Regioni. In ambito sanitario, il concetto di livello essenziale delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali è declinato nel concetto di Livello essenziale di assistenza (successivamente: LEA).

I LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA

I Lea costituiscono le prestazioni che lo Stato italiano è tenuto ad assicurare a tutti attraverso il Servizio Sanitario Nazionale. L’elencazione dei Lea è stabilita e aggiornata periodicamente da atti del Governo e comprendono principalmente tre macro-livelli assistenziali:

1) Area prevenzione: servizi volti a garantire il diritto alla salute, inteso non solo come cura delle malattie ma anche come misura di prevenzione dalle stesse a livello collettivo ed individuale;

2) Area distrettuale: servizi socio-sanitari diffusi ovunque nel territorio;

3) Area ospedaliera: servizi di assistenza di pronto soccorso ed ospedaliera.

Le Regioni devono garantire prestazioni dei LEA gratuitamente o attraverso il pagamento di un ticket e, in presenza di fondi aggiuntivi, possono provvedere a garantire anche prestazioni ulteriori. Preme al riguardo segnalare che l’Italia presenta nel suo complesso storiche e stratificate differenze socio-economiche tali da non permettere una uniforme distribuzione delle risorse economiche e, per l’effetto, della uniforme garanzia dei LEA.

L’osservatorio indipendente GIMBE ha monitorato lo stato di adempimento dei LEA su tutto il territorio nazionale rilevando profonde disuguaglianze tra le regioni italiane del nord e del sud:

L’emergenza sanitaria mondiale dovuta alla pandemia da Covid 19 ha poi accentuato queste disuguaglianze con un complessivo discapito per il diritto alla salute dei cittadini di molte zone del paese, specialmente al Sud, dove il livello di spesa procapite per la sanità è in media ben più bassa rispetto al Nord.

Se guardiamo poi ai dati del monitoraggio sui LEA del Ministero della Salute per gli anni 2017-2020 si pone alla nostra evidenza una diretta conseguenzialità tra la spesa sanitaria delle Regioni ed i livelli di efficacia e qualità delle prestazioni fornite.

Quale indicatore degli effetti di questo stato di cose, si segnala, a titolo di esempio, il dato sulla mortalità infantile, rilevato da Istat. Nel 2021, entro il primo anno di vita, ogni 1000 bambini nati vivi, si sono registrati rispettivamente 1,8 decessi in Toscana, 3,9 in Sicilia ed in Calabria 4,1. Il dato dei decessi infantili mette in evidenza  per l’appunto come le regioni del sud superano ed in taluni casi, come quest’ultimo che deriva dal raffronto tra Toscana e Calabria, raddoppiano rispetto al nord. Tale circostanza è segno di una riduzione dei presidi socio-sanitari e di prossimità sul territorio fondamentali per sostenere la salute e il benessere materno-infantile.

Nella successiva tabella si rileva come, sempre a titolo esemplificativo, la Calabria, rispetto ai tre parametri dei LEA sulla presenza di servizi di prevenzione, distrettuali/territoriali e ospedaliera sia molto al di sotto della sufficienza. Tale dato non può che avere conseguenze sulla salute generale della popolazione che tra nord e sud differenziare la propria condizione dispetto all’aspettativa di vita e alla necessità di doversi spostare anche molto lontano dalla propria regione per raggiungere cure adeguate (c.d. mobilità sanitaria).

Le criticità più forti, categorizzate in base all’area di osservazione specifica per i LEA e la cui soluzione potrebbe consentire un miglioramento della condizione esposta sono:

1) AREA PREVENZIONE: carenza strutturale di personale che diventa cronica nel sud- italia

Secondo un’analisi fornita dal principale quotidiano italiano, ‘Il Corriere della Sera’, dal 2015 al 2022, in Italia, si sono persi 15.000 figure professionali mediche, a causa del mancato ‘tourn over’ e dell’adeguata sostituzione di personale pensionato. I nuovi laureati, inoltre, preferiscono specializzazioni più appetibili dal punto di vista della libera professione e presidi sanitari più prestigiosi, localizzati nelle grandi città. Un’ulteriore criticità riguarda i tempi di attesa per le visite specialistiche che, in teoria, dovrebbero essere regolati rigidamente per garantire tempi certi di prestazione. Secondo il Corriere della Sera di novembre 2023 ‘ I tempi di attesa, infatti, monitorati dalle Regioni prendono in considerazione il numero di giorni che trascorrono dalla chiamata del paziente al call center (Cup) per prenotare alla data dell’appuntamento. Se però gli rispondono che in quel momento non c’è posto e lo invitano a ritelefonare dopo una settimana o due, la data che farà fede è quella della seconda chiamata, nella quale l’operatore fisserà effettivamente l’appuntamento. Della prima richiesta del paziente non resta traccia, anche se in realtà la sua attesa è iniziata da allora. In questo modo però tutti i tempi di prenotazione risultano più brevi. La prova che il meccanismo è diffuso la troviamo nei dati di Agenas che contano, e per la prima volta, quanto tempo trascorre da quando io ho in mano la ricetta del medico a quando telefono al Cup per prendere l’appuntamento. Solo il 18% lo fa il giorno stesso o il giorno dopo, se deve fare l’esame in 72 ore; il 41% se deve farlo in 10 giorni; il 51% se deve farlo entro 60. É paradossale: prima devo avere un esame o una visita, più tardi chiamo. Non può succedere davvero così. È ragionevole pensare che io la telefonata al Cup la faccio subito, ma solo al 18% viene dato l’appuntamento, e infatti ne rimane traccia. A tutti gli altri viene detto di richiamare perché non c’è posto. Se ne deduce che di quell’82% una parte non farà la visita nei tempi previsti, e un’altra parte si rivolgerà alla Sanità a pagamento. L’Osservatorio sui consumi privati in Sanità (Cergas-Bocconi) stima che su 100 esami 21 sono a pagamento; e 41 su 100 visite mediche.
L’altro problema è che i dati comunicati dalle Regioni si riferiscono solo alle telefonate fatte al call center che, nella realtà, spesso intercetta solo una parte delle richieste (non quelle, per esempio, fatte agli sportelli). Ciò emerge andando a vedere il numero di prenotazioni fatte per mille abitanti: è realistico che nell’Asl di Roma 1 e Rieti nella settimana tra il 22 e il 26 maggio solo 30 pazienti abbiano avuto bisogno di prenotare una Tac entro 10 giorni oppure che nell’Asl di Oristano solo 2 avessero bisogno di una risonanza magnetica sempre entro 10 giorni? Lo stesso vale per le visite: possibile che in tutto il Piemonte solo in 376 abbiano bisogno di una visita cardiologica? In Emilia-Romagna, che può essere considerata una Regione benchmark le prenotazioni sono intorno a 1 per 1.000 abitanti. Dove ci sono percentuali inferiori vuol dire che i dati non intercettano le vere richieste dei cittadini. E quindi come si risolve questa piaga se i direttori generali mascherano la realtà?’

Le scelte dei cittadini

2) AREA DISTRETTUALE: chiusura dei presidi sanitari più piccoli nelle zone interne del paese

Nelle zone disagiate di tutta la penisola, ma soprattutto al Sud, il diritto alla salute viene messo in discussione dalla  chiusura di piccoli presidi sanitari sul territorio. Occorre stabilire politiche in grado di garantire presidi sul territorio più prossimi alle persone, specialmente con riguardo alla popolazione anziana ed ai bambini. Nello specifico occorre conciliare, da un lato, l’esigenza di prossimità delle cure e della prevenzione per la popolazione e, da altro lato, la garanzia di standard adeguati di qualità e sicurezza.
Tale aspetto si lega alla scarsità di medici nelle zone c.d. disagiate dove i concorsi vanno per lo più deserti. Tale fenomeno ha una valenza nazionale e vede coinvolto non solo, benché in prevalenza, il sud e le isole ma anche città come Venezia, reputata sede disagiata, o le zone sismiche del paese.

Emblematico il caso della Sardegna; così ha denunciato, nel novembre 2021, Gino Cadeddu, Rsu dell’Ats Sardegna:  «La situazione è disastrosa –, la struttura della Regione che gestisce il sistema sanitario nell’isola -. Visite agli esterni, negli ospedali non se ne possono fare. Tutto è delegato al privato che però non riesce a sopperire a tutte le richieste. E come se non bastasse stanno andando in pensione molti specialisti e manca il personale. Abbiamo liste d’attesa di almeno tre mesi per interventi che non siano d’urgenza».

A essere colpite sono soprattutto le zone più povere e più isolate. Nel Nuorese e in Ogliastra mancano persino i medici di base. Il sindaco di Ussassai, comune di cinquecento abitanti, ha chiesto aiuto a Emergency. Anche l’ospedale San Francesco, a Nuoro, è fortemente ridimensionato. Tutti i reparti funzionavano benissimo e alcuni, come la cardiologia, erano strutture di eccellenza. Poi sono arrivati i tagli e ora alcuni reparti quasi non esistono più, come oculistica e geriatria. I medici trasferiti in altri ospedali non vengono sostituiti. A Oristano molti reparti dell’ospedale San Martino sono in difficoltà per mancanza di personale e in provincia rischiano la chiusura gli ospedali di Isili, Ghilarza e Muravera>>.

3) AREA OSPEDALIERA: mancanza di medici di base e di infermieri a fronte di un numero di medici e di risorse spese non in linea con la media Ocse.

I divari territoriali sono, così, aumentati in un contesto di generalizzata debolezza del Sistema Sanitario che, nel confronto europeo, risulta sottodimensionato per stanziamento di risorse pubbliche (6,6 % del Pil contro il 9 di Germania e Francia), a fronte di un contributo privato comparativamente elevato (24%, il doppio di Francia e Germania). Il numero di medici per abitante, invece, risulta in linea con la media europea, ma specializzato, principalmente, in settori come medicina estetica, dermatologia, oculistica, più gratificanti dal punto di vista economico.

Le principali conseguenze di tutto questo sono:

1) povertà sanitaria

Una rilevante condizione di povertà sanitaria in cui cinque regioni del Sud risultano inadempienti dal punto di vista dei Lea (livelli essenziali di assistenza) con la conseguenza che 1,6 milioni di famiglie italiane risultano in povertà sanitaria e di cui 700 mila al Sud. Proprio al Sud, la speranza di vita è minore di 1,5 anni, in un contesto indicato come l’area del Paese con le peggiori condizioni di salute e dove la prevenzione viene praticata in una percentuale sensibilmente minore rispetto al resto d’Italia.

2) mobilità sanitaria

La fuga dal Sud per ricevere assistenza in strutture sanitarie del Centro e del Nord, soprattutto per le patologie più gravi, tende, così, ad aumentare esponenzialmente. Nel 2022 dei 629 mila migranti sanitari, il 44 % era residente in una regione del Mezzogiorno. Il 22% dei malati oncologici del Sud, poi, si è spostato, per ricevere le cure, verso il Centro e il Settentrione.

3) maggiore mortalità nel sud italia per malattie oncologiche.

Quanto appena descritto, va analizzato insieme al dato sul tasso di mortalità oncologica al Sud, pari al 9,6 per 10 mila abitanti, rispetto all’8 del Nord.

RICHIESTE ALLO STATO ITALIANO

  • Allineamento rispetto alla media Ocse della spesa sanitaria
  • Incentivare la presenza di medici nelle zone perferiche e/o svantaggiate
  • Portare a compimento quanto previsto dal Pnrr
  • Attenzione alla autonomia differenziata (Svimez-Sole 24 ore)

Al fine di tutelare il diritto alla salute, sancito dalla Costituzione e reso effettivo dalla creazione del Servizio Sanitario Nazionale, risulta innanzitutto imprescindibile aumentare la spesa sanitaria, allineandola alla media Ocse. Ciò fatto, si dovrebbe incentivare la presenza di personale medico in zone periferiche e disagiate, garantendone la presenza mirata con gratificazioni retributive che, comunque, dovrebbero riguardare tutto il reparto sanitario. Questa capillare presenza di strutture sanitarie, risulta uno dei punti del PNNR – tramite le Case della Comunità e le Case della Salute – ridimensionato rispetto al piano originario. Visti i dati elencati precedentemente, sarebbe necessario, al contrario, uno sforzo per fornire, il più possibile e in maniera omogenea, tutto il territorio italiano di presidi sanitari, secondo quanto insegna anche il drammatico periodo della pandemia da Covid -19.

Da questo punto di vista, non si possono negare i rischi della ‘autonomia differenziata’ la quale sembra aver la potenzialità di favorire le regioni più ricche le quali, avendo maggior forza attrattiva per il personale e maggior risorse finanziarie, possono da subito garantire maggiori prestazioni e, quindi, richiedere maggiori fondi, secondo una spirale che potrebbe escludere le regioni più disagiate.

E’, invece, compito della Repubblica evitare questa stortura e garantire il diritto alla Salute, e quindi alla vita, in ogni sua zona e intervenire per proteggere i più deboli laddove, come al Sud, questo diritto viene, indubbiamente, messo in crisi, se non negato totalmente.


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