
di Daniele Madau
Da quando Fidippide, emerodromo ateniese (e cioè messaggero addestrato a percorrere lunghe distanze in breve tempo), suscitò la scintilla da cui scaturì la maratona, questi 42 km. sono il simobolo della constante e affannosa corsa della vita e della giornata di gloria, di vittoria, che, ognuno di noi, sperimenta almeno una volta nella sua vita. Sessant’anni fa, alla maratona delle olimpiadi di Roma il 10 settembre 1960, Abebe Bikila questa giornata di gloria la percorse interamente e la raggiunse scalzo: in accordo con il suo allenatore -certo (almeno così si disse) – ma con una bellissima valenza simbolica, da povertà francescana che si unisce all’umiltà africana (Abebe era figlio di un pastore, nel continente africano) che fa davvero sognare. L’uomo – sostengono gli specialisti – è nato per stare scalzo, in quanto il piede è l’organo sensitivo propriocettivo per eccellenza: capace, cioè, di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio anche senza il supporto della vista. Una volta indossate le scarpe sembra davvero che, spesso, l’uomo abbia perso la sua posizione.